Come funziona l’end of waste negli ordinamenti nazionali

di David Röttgen, Eugenio Fidelbo – Ambientalex Studio Legale

 

La disciplina della cessazione della qualifica di rifiuto intende realizzare il bilanciamento di due esigenze (in parte) contrapposte: l’uniforme applicazione, nel territorio dell’Unione e all’interno degli stessi Stati membri, delle generali condizioni end of waste, in modo da non creare disparità di trattamento tra operatori economici dei diversi Stati membri, e, per altro verso, la necessità di assicurare alle amministrazioni strumenti flessibili in grado di “stare al passo” delle evoluzioni tecnologiche ed economiche connesse agli obiettivi di conseguimento di un’economia circolare. A tal fine, uno dei fattori decisivi consiste proprio nella possibilità per i detentori di rifiuti di attivare le procedure amministrative volte a stabilire quando un rifiuto cessa di essere tale, ancor meglio se accompagnato dalla previsione di idonei strumenti di monitoraggio delle decisioni assunte dalle competenti autorità amministrative. Come sarà evidenziato a breve, gli Stati membri con i migliori risultati in termini di recupero dei rifiuti riconoscono ai singoli una facoltà di iniziativa nei procedimenti end of waste, assistita dalle ordinarie tutele in sede giurisdizionale.

È possibile classificare i modelli end of waste adottati in Europa sulla base di due parametri:

  1. a)la natura degli effetti prodotti dall’atto recante i criteri dettagliati, che possono essere generali (come accade per con i regolamenti ministeriali o altri atti normativi di rango secondario) o individuali (nel caso di atti di natura provvedimentale, come le autorizzazioni amministrative);
  2. b)l’iniziativa nelle procedure end of waste, d’ufficio o su istanza di parte.

 

Primo modello: l’isolato caso di successo dei Quality Protocols nel Regno Unito

Questo modello prevede che il procedimento sia avviato solo d’ufficio e che si concluda con l’adozione di un atto di portata generale, ossia un regolamento o altro atto normativo di rango sub-legislativo (per esempio un decreto ministeriale). I criteri dettagliati così stabiliti necessitano di essere applicati nei casi concreti, in sede di rilascio o rinnovo dell’autorizzazione alla realizzazione ed esercizio degli impianti di trattamento dei rifiuti. Solitamente la competenza all’adozione dei regolamenti spetta all’autorità statale o, negli Stati a forte vocazione autonomistica, alle autorità regionali.

Si tratta di un regime diffuso in numerosi Stati membri: Spagna, Portogallo, Austria, Estonia, Finlandia; per un breve periodo è stato operativo anche in Italia. Ciononostante, il modello presenta alcune rigidità eccessive dovute all’assenza di strumenti che consentano ai privati di attivare il procedimento di fissazione dei criteri dettagliati o, comunque, di collaborare con l’autorità amministrativa.

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Sotto questo profilo, una rilevante eccezione è costituita dal modello dei Quality Protocols istituito nel Regno Unito che (almeno sino alla Brexit) aveva il primato europeo di regolamenti end of waste notificati alla Commissione. Due elementi mitigano le rigidità appena evidenziate: in primo luogo, non sono obbligatori né vincolanti, ma hanno natura volontaria e costituiscono una mera presunzione circa la sussistenza delle condizioni generali per la cessazione della qualifica di rifiuto; in secondo luogo, sono adottati sulla base di accordi o intese tra governo ed associazioni di categoria dei produttori garantendo, per tale via, una certa partecipazione degli interessati al procedimento di formazione dei criteri end of waste..

 

Secondo modello: l’esperienza francese e belga

È il regime adottato in Francia e in Belgio (limitatamente alla Regione Vallona). Anche in questo caso, i criteri dettagliati sono posti solo da atti generali applicati in sede di accertamento in concreto dell’avvenuta cessazione della qualifica di rifiuto di una sostanza.

Le differenze riguardano le modalità di attivazione delle procedure. Questi regimi consentono al detentore di un rifiuto di chiedere all’autorità competente di fissare criteri dettagliati: ancorché aventi sempre portata generale, i criteri possono dunque essere emessi anche all’esito di un procedimento avviato su istanza di parte. Quest’ultima, da parte sua, può ricorrere a tutti gli strumenti di tutela amministrativa e giudiziale in relazione a dinieghi o inerzie amministrative.

Senza dubbio è un modello più idoneo a contemperare i contrapposti interessi pubblici, proprio perché il carattere generale e astratto dei criteri non preclude l’accoglimento di istanze provenienti “dal basso”. Permangono, tuttavia, profili di rigidità, soprattutto in quei contesti istituzionali, come quello francese, in cui la competenza ad adottare i regolamenti spetta all’autorità ministeriale. In questo modo, le autorità locali, comunque competenti ad autorizzare gli impianti di trattamento di rifiuti, non possono valutare caso per caso la sussistenza delle condizioni end of waste senza un apposito regolamento.

 

Terzo modello: la rinnovata adesione dell’Italia a un modello efficiente

È solitamente il governo centrale (ministero o altra agenzia ministeriale) l’autorità competente alla fissazione dei criteri dettagliati di portata generale. In questi casi, la procedura si avvia solo d’ufficio.

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Tuttavia, in assenza di regolamento o atto normativo generale, le amministrazioni competenti al rilascio delle autorizzazioni per la realizzazione e l’esercizio degli impianti di trattamento dei rifiuti (solitamente di livello sub-centrale) valutano l’esistenza delle condizioni end of waste, in sede autorizzatoria e su istanza di parte, mediante provvedimenti di portata individuale.

Non che tali sistemi possano dirsi astrattamente esenti da qualsivoglia criticità: i rischi attengono soprattutto a difetti di coordinamento tra amministrazioni locali e centrali, idonei ad ingenerare eterogeneità e trattamenti discriminatori all’interno del territorio nazionale. A tal fine, la direttiva 2018/851 invita gli Stati membri a «rendere pubbliche tramite strumenti elettronici le informazioni sulle decisioni adottate caso per caso e sui risultati della verifica eseguita dalle autorità competenti», in modo da consentire un monitoraggio delle prassi amministrative e decidere circa l’adozione di atti di natura generale ove appropriato.

L’efficienza del terzo modello è testimoniata dalle performance dei Paesi che lo adottano, Germania e Paesi Bassi in testa, ma anche il Belgio (Regione di Bruxelles) e, adesso, dopo la breve parentesi dovuta alla sentenza del Consiglio di Stato n. 1229 del 2018, l’Italia.

Tuttavia, non si può sottacere che l’esperienza della normativa end of waste nel nostro ordinamento si è contraddistinta per una certa instabilità (oltre che da una buona dose di “indolenza” dell’amministrazione), deflagrata nelle oscillazioni che ne hanno caratterizzato la disciplina negli ultimi due anni, sino all’intervento legislativo – per diversi aspetti ancora critico – del novembre 2019. Al netto dei profili patologici, anche il caso italiano mostra come l’avvicendarsi delle varie modalità di accertamento delle fine della qualifica di rifiuto corrisponda al prevalere, ora, di istanze di uniformità e certezza del diritto, ora, delle esigenze di flessibilità.

Introdotto nel 2008, il sistema di accertamento della cessazione della qualifica di rifiuto è stato riformato appena due anni più tardi con l’inserimento, da parte del decreto legislativo 205 del 2010, dell’art. 184 ter del codice. La disciplina nei suoi primi anni di vigenza è stata interpretata in maniera (grosso modo) assimilabile al terzo modello: la modalità ordinaria di verifica end of waste avrebbe dovuto basarsi sui criteri specifici per tipologie di rifiuti determinati da appositi decreti ministeriali; nelle  more dell’adozione di tali decreti, l’accertamento era demandato alle stesse autorità competenti ad autorizzare l’esercizio o la realizzazione degli impianti di trattamento dei rifiuti (le Regioni o gli enti da esse delegati), che vi provvedevano al momento del rilascio del provvedimento autorizzatorio.

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Tuttavia, già nel 2016 si era reso necessario un intervento ministeriale, sia pure attraverso una circolare (atto non vincolante), volto a confermare tale assetto e fugare i dubbi interpretativi che, sorti in seguito alle modifiche introdotte un biennio prima in tema di procedure semplificate per gli impianti di recupero, avevano indotto alcune Regioni a ritenersi non più titolari del potere di accertamento “autonomo”.

Nondimeno, nel 2018 – con la citata pronuncia del Consiglio di Stato n. 1229, dalle non irrilevanti criticità giuridiche, oltre che pratiche – i giudici di Palazzo Spada dichiararono l’impossibilità di accertare il “fine-rifiuto” in assenza di apposito decreto ministeriale.

Considerati i gravi effetti provocati dalla citata sentenza Contarina, tale indirizzo, inizialmente confermato dal decreto Sblocca cantieri (d.l. n. 32 del 2019), è stato successivamente sconfessato in sede di conversione in legge del d.l. n. 101 del 2019.

Alle Regioni è stata ora ri-attribuita la potestà di accertare in sede autorizzatoria la sussistenza delle condizioni end of waste anche in assenza di criteri specifici (nazionali o dell’UE), così riportando l’assetto istituzionale alla situazione ante Contarina, peraltro arricchito da un rinnovato approccio di collaborazione inter-istituzionale, tuttavia non esente da criticità, soprattutto in termini di “certezza del diritto”.

Per tale ragione, verosimilmente, lo sviluppo della normativa end of waste nel nostro Paese non ha ancora subito un arresto.

Il nuovo meccanismo end of waste, infatti, oltre ad istituire un meccanismo di monitoraggio e controllo forse eccessivamente complesso, non fornisce nessuna garanzia al gestore di un impianto in termini di certezza del diritto. Costui, infatti, si vedrà esposto, per l’intera durata della sua autorizzazione end of waste, al rischio di essere privato, in forza del meccanismo istituito dall’art. 184-ter, del titolo abilitativo sul quale egli fonda la propria attività di riciclo e recupero.

Una simile “spada di Damocle” non favorirà di certo l’erogazione di finanziamenti da parte di un sistema finanziario italiano “iperprudente”, con tutti i rischi che ne derivano per la realizzazione dell’economia circolare nel Bel Paese.