In molti Comuni italiani nel periodo post natalizio si recuperano gli abeti non più trapiantabili e destinati a morire
A feste concluse l’ultima cosa che resta da fare è occuparsi dell’albero di Natale. Presente in 9 case su 10, acquistato con una spesa media di 42 euro, in quasi la metà dei casi si preferisce addobbare un vero albero: secondo le stime di Coldiretti quest’anno sono stati acquistati circa 3,5 milioni di abeti.
La prima cosa da fare è verificare se l’albero ha le radici: in questo caso la cosa più ovvia è trapiantarlo e riutilizzarlo. Ma anche per gli abeti privi di radici si può pensare un percorso sostenibile e circolare, alternativo alla discarica. Infatti, come ricorda Hera – la multiutility con sede a Bologna – questi alberi possono ancora essere utili trasformandoli in compost, ottimo fertilizzante da utilizzare in agricoltura.
Per questo l’albero va portato nelle stazioni ecologiche, mentre i più pigri possono chiederne il ritiro gratuito a casa, se questo servizio è attivo nel proprio Comune. In alternativa, se l’albero non è troppo grande, si può ridurre in tronchetti e gettare nei cassonetti dei rifiuti vegetali, quelli per sfalci e potature (nelle città in cui sono presenti).
Destino diverso per gli alberi sintetici. Chi decide di sbarazzarsene e non conservarli per l’anno successivo deve portarli direttamente alla stazione ecologica. Attenzione anche agli addobbi luminosi: le luci non più funzionanti sono Raee e vanno smaltite come tali.
In Italia gli alberi naturali – informa Coldiretti – sono coltivati soprattutto nei vivai o nelle zone montane e collinari in terreni marginali altrimenti destinati all’abbandono e contribuiscono a migliorare l’assetto idrogeologico delle colline e a combattere l’erosione e gli incendi. Grazie agli alberi di Natale è quindi possibile mantenere la coltivazione in molte aree di montagna, ottenendo un terreno capace di assorbire la pioggia in profondità riducendo il pericolo di frana.
Niente a vedere con gli alberi di plastica che – prosegue Coldiretti – arrivano molto spesso dalla Cina e non solo consumano petrolio e liberano gas serra per la loro realizzazione e il trasporto, ma impiegano oltre 200 anni prima di degradarsi nell’ambiente.